"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

28/02/2012 -
Il diario di Michele Nardelli
Il primo ministro tibetano a Palazzo Trentini
Provo angoscia per quel che sta avvenendo in queste ore in Val di Susa. La scelta di salire su un traliccio dell'alta tensione mettendo in gioco la propria vita ci racconta di un conflitto che non trova più margini di mediazione. Che si sono tagliati i ponti di comunicazione, che la vittoria di una parte comporta l'annichilimento dell'altra e che il conflitto è destinato così a produrre solo frustrazione e rancore.

La lotta nonviolenta ci insegna invece che uno spiraglio va sempre lasciato o ricercato, per una soluzione che non sia umiliante per ognuna delle parti, a prescindere da chi vince e da chi esce sconfitto, nella ricerca spesso dolorosa di un compromesso che faccia maturare la contraddizione.

Di fronte a quel che accade in Val di Susa occorre fermarsi. Un'intera valle, il presente e il futuro di migliaia di persone non può essere considerato un accidente secondario e questo ci dice come tutta la procedura sia stata impostata male, nel segno della forza piuttosto che nella ricerca di strumenti di democrazia partecipativa in grado di abbassare il conflitto e di farlo evolvere in maniera creativa. Nel chiudere ogni spazio di dialogo c'è la negazione del ruolo stesso della politica, ovvero la ricerca di soluzioni il più possibile condivise.

Invece, avanti, a testa bassa. E' il progresso a chiederlo. Dove ci porti non è affatto chiaro, la politica si muove a vista figuriamoci se ha idea di quel che accadrà sul piano delle comunicazioni e del trasporto merci fra trent'anni... ma in attesa si scavano le montagne.

Fuori dalla ricerca del consenso il conflitto diventa esasperato, estremo. Tanto da mettere in gioco la vita. Per chi, come me, pensa che fini e mezzi siano la stessa cosa, non c'è nessuna causa per quanto nobile per la quale valga la pena di sacrificare la propria vita. Poi accade, e verso queste persone va il rispetto più alto.

Nella disperata scelta di quei monaci tibetani che scelgono di morire dandosi fuoco c'è l'assenza di una via d'uscita. Come non c'erano vie d'uscita nella scelta di Jan Palach di fronte ai carri armati con la stella rossa o del giovane tunisino di fronte al sopruso di un regime che calpestava la dignità.

Questo scorrere di pensieri mi attraversa mentre ascolto la voce rassicurante di Lobsang Sangay, il giovane capo del governo tibetano in esilio. Lui rappresenta la resistenza nonviolenta di un popolo la cui forza sta nel contrapporre alla negazione dei diritti umani la cultura. Strada difficile di fronte ad un avversario tanto potente non solo da condizionare gli Stati ma persino una piccola università come quella di Trento che, preoccupata di compromettere le proprie relazioni con la Cina, non trova di meglio che oscurare l'informazione sulla conferenza promossa dalla Università stessa nella Facoltà di Giurisprudenza con la partecipazione del primo ministro tibetano. Tornano rapidamente sui propri passi, ma questo può accadere anche in una terra sensibile e aperta come il democratico Trentino che pure è stata la culla della carta per l'autonomia del Tibet.

Misuriamo così, nelle vicende internazionali come sulle strade di una valle che non vuole soccombere alle magnifiche sorti e progressive, la crisi della politica.

 

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