"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

16/10/2012 -
Il diario di Michele Nardelli
Ginestra

In questi quattro anni di legislatura, le occasioni di dibattito sulle leggi finanziarie hanno rappresentato uno dei rari momenti di confronto politico in aula. Oggi il presidente Dellai anticipa le linee di fondo di quella che sarà l'ultima manovra finanziaria prima della conclusione di questo mandato consiliare, una manovra particolarmente difficile se pensiamo che sarà la prima che avviene con un segno negativo nell'andamento del PIL provinciale.

Devo però dire che queste prime indicazioni di lavoro appaiono un po' scarne e sulla difensiva. I tagli operati in sede nazionale verso le autonomie locali, accanto ad un accentuata deriva centralistica, oggettivamente ci costringono a difendere le nostre prerogative di autogoverno. E se pure quella del presidente Dellai è solo una prima comunicazione, forse più tecnica che politica, non dovremmo esitare a rivendicare che l'autogoverno è una condizione essenziale di coesione sociale, ingrediente quest'ultimo decisivo per stare dentro una crisi destinata a diventare elemento strutturale, in parole semplici, normalità.

Qui non si tratta dunque di rivendicare condizioni di privilegio, per quanto storicamente motivate. Se non vogliono essere travolti dal nuovo contesto, i territori devono darsi una più spiccata capacità di autogoverno responsabile, valorizzando la loro unicità, mettendo a sistema ogni attore locale, sviluppando nel contempo una rete di relazioni lunghe, fra territori e ambiti sovranazionali.

La crisi è destinata ad esasperare i conflitti interni agli stati nazionali alle prese con la recessione: così la Scozia indice il referendum per la secessione dalla Gran Bretagna, l'autonoma Catalogna rischia di cedere alle derive  indipendentiste, la Baviera diventa stato nello stato condizionando pesantemente la cancelliera Merkel, mentre in Italia - nella crisi profonda delle istituzioni - Lombardia e Veneto giocano la carta dell'asse con Monaco in nome di una Euroregione alpina che aggiunge nuove confini piuttosto che superare quelli che ci sono. Spinte che abbiamo conosciuto tragicamente alla fine degli anni '90, per cui mi risulta difficile restare indifferente al grido di una nuova Weimar che viene dal premier conservatore greco.

Nell'opacità di questa cornice, il profilo della nuova legge finanziaria trentina dovrebbe portare la nostra gente a comprendere appieno la delicatezza di questo passaggio. Insomma, non basta dire che la situazione non ci permette i margini degli anni precedenti, dobbiamo capire che è necessario cambiare. Non solo garantendo più qualità con meno risorse (il "meglio con meno" di cui parlavamo negli anni precedenti), ma cambiando il nostro modo di rapportarci al lavoro, alle risorse che ci offre l'ambiente in cui viviamo, ai consumi, al welfare, allo studio e alla ricerca... rendendoci tutti partecipi di una grande scommessa collettiva. Questa è, in fondo, l'autonomia.

L'opposto della ricerca salvifica dell'uomo della provvidenza che del berlusconismo è l'onda lunga. Da cui si esce non perché il signore di Arcore si mette da parte, ma perché quel modello sociale e culturale prima ancora che politico viene messo in discussione.

Per questo sono preoccupato, convinto come sono che il polverone dei costi della politica non ci aiuti di certo a capire il contesto, perché rivendicare a gran voce di tagliare la politica (piuttosto che i privilegi, e non solo della politica) o la rottamazione di qualcuno, altro non è che il ripetersi dell'epilogo della prima Repubblica. Che ieri ha portato al ventennio berlusconiano, oggi rischia di trascinarci ancora più giù. Purtroppo, come all'inizio degli anni ‘90, anche oggi la politica organizzata fatica a trovare le parole per una nuova narrazione. E non meglio stanno gli altri corpi intermedi.

La bella serata che si svolge al Castello del Buonconsiglio e dedicata al primo anniversario dalla scomparsa di Andrea Zanzotto, ci dice come la poesia possa venire in aiuto alla politica (al pensiero come all'agire politico). Perché la politica ha in primo luogo bisogno di sguardi, sguardi sul proprio tempo, su come sono cambiati gli scenari, i luoghi dove viviamo, la natura che pure continua ad inviarci segnali senza che noi sappiamo raccoglierli, le relazioni sociali fra la difesa del proprio giardino e la solitudine. E i poeti sanno avere lo sguardo profondo che non si addice alle mode o alle furbizie.

Non credo sia affatto casuale, devo averlo già scritto in questi giorni ma mi va di ripeterlo, che dalla regione che più di altre è stata vittima dello spaesamento siano venuti in questi anni gli acuti più intensi nella lettura del nostro tempo. Questo in ogni caso è stato Andrea Zanzotto, anche se mi sono reso conto in questi giorni che quello che veniva considerato il più grande poeta contemporaneo era ed è (ai più) uno sconosciuto. Ne abbiamo una riprova anche martedì sera, nel vedere le molte sedie vuote in una serata di così rara intensità politica.

Non c'è da stupirsi, per la verità. Nei giorni scorsi, in una lettera ad un quotidiano locale, qualcuno si chiedeva dove fossero i rappresentanti delle istituzioni della pace nella serata con la premio Nobel per la pace Rigoberta Menchu. Qualcun altro ha scritto al Forum chiedendoci del nostro silenzio di fronte all'imminente scoppiare di una guerra contro l'Iran o dell'acquisto dei cacciabombardieri F35 (ignaro evidentemente che la nostra è stata la prima regione italiana a chiedere la sospensione di quel programma). Qualcun altro ancora si lamentava del sostegno dato da alcuni enti locali all'esponente libico/ebraico David Gerbi reo, secondo costoro, di aver assecondato l'aggressione occidentale alla Libia di Gheddafi.

La pace, non diversamente dalla politica, richiede oggi di uscire dai suoi rituali e di scavare in profondità. Per ridare senso alle parole, specie se queste ci interrogano sul futuro. Sì, le parole, che oggi non comunicano più. Forse così potremmo capire perché abbiamo scelto la poesia (ma anche la storia e la geografia...) per aiutarci ad abitare il tagliente crinale del nostro tempo.

 

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