"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

20/04/2012 -
Il diario di Michele Nardelli
Rachel Corrie qualche istante prima di essere travolta dal bulldozer
Il film "Rachel" è angosciante. Nella sala del Cinema Astra a Trento piena soprattutto di giovani non si sente il minimo brusio. Non sono lì come studenti accompagnati da qualche insegnante ma per loro spontanea iniziativa. Per conoscere la storia di una ragazza della loro stessa età che decide di mettere il proprio corpo fra i bulldozer israeliani e le case dei palestinesi a Rafah, nella Striscia di Gaza, rimanendone uccisa.

Un documentario che raccoglie la voce dei testimoni oculari di quella tragedia, gli attivisti della pace che come Rachel si opponevano all'abbattimento delle case, dei giardini e degli olivi che avevano la sola colpa di essersi venuti a trovare in prossimità del "muro della vergogna". O la testimonianza delle famiglie che ospitavano questi giovani (alcuni di loro di origine ebraica) che venivano da ogni parte del mondo e che consideravano come angeli.

Raccoglie anche le dichiarazioni dei giovani soldati israeliani e dei loro superiori. Mi colpisce in particolare quella di un ragazzo israeliano che dopo aver fatto il soldato ha scelto di interrogarsi su quel loro sparare sulle case per divertimento. Quella banalità del male che nella sua testimonianza lo porta a dire "eppure da civile sono una persona gentile".

Non mi è facile parlare con questi ragazzi. Forse si aspettano da me un motivo di speranza, ma non è cosa. Forse vorrebbero che il tono delle mie parole assomigliasse a quello del giovane anarchico israeliano che nel film parla di resistenza, a dispetto di tutto. Preferisco prendere un'altra strada. Dico loro che non c'è alcuna causa per cui possa valere la pena di morire. Che la pace non ha bisogno di eroi ma di conoscenza, di relazioni, di cultura. Quel che le guerre moderne distruggono nel loro dispiegarsi contro i luoghi della storia e della memoria, contro gli intellettuali, contro le città.

Racconto loro di quante manifestazioni si sono realizzate a sostegno della causa palestinese dall'inizio degli anni '70 ad oggi, della solidarietà internazionale, di come la Palestina sia entrata piano piano nella mia vita. Parlo del senso di impotenza che mi prende ogni volta che ritorno da quella che un tempo veniva chiamata "la mezzaluna fertile del Mediterraneo". Di come i palestinesi abbiamo tentato tutte le strade e di come la pace sia oggi più lontana di ieri. La stessa idea di "due popoli, due stati", sostenuta a parole dal mondo intero diventi pura e semplice ipocrisia di fronte agli insediamenti ebraici illegali nei territori che dovrebbero essere sotto il controllo dell'ANP.

Provo a dire che per uscire dall'incubo in cui si sono cacciati israeliani e palestinesi, occorre uno scarto di pensiero, qui forse più difficile che altrove. Era - non so quanto consapevolmente - quel che si ripromettevano i giovani di Gaza quando davano inizio al loro manifesto/grido di dolore con le irriguardose parole di "Vaffanculo..." rivolte a tutti gli attori di una guerra che dura da più di mezzo secolo. Gridavano vaffanculo al mondo, seguito da un filo di speranza, "vogliamo vivere". Capivano, prima di tanti analisti, questo bisogno di tirarsi fuori, di smarcarsi rispetto ad un rituale che ci ha fatti diventare vecchi dentro e fuori. Perché dunque andare a morire per uno stato fuori dal tempo? O per spostare di qualche metro un muro o il filo spinato?

Non ho ricette da spendere. Solo la necessità di uscire dal paradigma novecentesco dello stato nazione, e poi  il riproporsi di investire sulla cultura, sulle reti partecipative, sulle relazioni e sulle capacità di autogoverno.  Per dare senso ad una cooperazione non più basata sugli aiuti, bensì nell'investimento per  creare nuove classi dirigenti, persone attente e responsabili, ma soprattutto oltre gli schemi del secolo passato. Qui come in ogni altrove. Come investimento su se stessi per comprendere questo tempo.

Immaginavo di raccogliere tutt'al più qualche domanda a conclusione della proiezione. Invece le persone in sala non si muovono, prima impietrite di fronte alle immagini, poi coinvolte dalle parole di Aziz - giovane palestinese che studia a Trento - che parla ai suoi coetanei cresciuti in un contesto protetto di altri ragazzi che non conoscono la parola futuro, e infine incuriosite da una persona che li mette in guardia dal criminale che si alberga in ciascuno di noi e dal percorrere strade già battute.

Il giorno successivo, nel seminario che accompagna la firma del nuovo protocollo di "Millevoci", Adel Jabbar parlerà delle seconde generazioni (i figli dei migranti) come di soggetti innovativi quand'anche incompresi, schiacciati da qualcuno (le famiglie) che li trova troppo italiani e da una comunità (la nostra) che continua a considerarli stranieri anche quando sono nati in questa stessa terra.  Trovo che questa immagine sia vicina assai alla platea che la sera prima mi ha quasi commosso per l'attenzione con cui ascoltava le mie parole.

 

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