"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

10/04/2012 -
Il diario di Michele Nardelli
Sarajevo, 11541 sedie vuote
I giorni di Pasqua se ne sono andati come un tranquillo fine settimana, fra un po' di lavoro arretrato e qualche buona lettura. Scrivo un pezzo per la rivista nazionale di Slow Food dedicato al Danubio e al viaggio previsto a fine giugno che ho già presentato in questo blog. Per questo dalla mia biblioteca scomodo il celebre lavoro di Claudio Magris (Danubio, Garzanti 1986) che - a dispetto degli anni - continua a trasmettere forti emozioni (è strano come la rilettura di un libro già letto possa dare nuove sensazioni, evidentemente a cambiare siamo noi...), e poi "E' oriente" di Paolo Rumiz, "Mar Nero" di Neil Ascherson...  

Vi raccontavo in questo diario di come avrei tanto voluto essere nei giorni scorsi a Sarajevo, fra le 11.541 sedie rosse, tante quante le vittime dell'assedio iniziato il 5 aprile di vent'anni fa, come monito al mondo intero di una città martire affinché quella tragedia non venisse rimossa nella memoria collettiva. Un messaggio efficace, non c'è che dire, ma la rimozione c'è stata allora e prosegue ancora nello sguardo appannato di chi non vuol vedere. Così, per essere vicino a questa città, chiamo Kanita per trasmettergli questo mio sentire e ripromettendomi di andarla a trovare, lei e la sua città, non appena i bagliori dei flash se ne saranno andati (il che accadrà molto presto).

Leggo tutto d'un fiato "Sarajevo, il libro dell'assedio" curato dall'amico Piero Del Giudice e presentato proprio in occasione del ventennale a Sarajevo. Raccoglie brani, testimonianze, racconti dell'assedio. Piero si concede solo la prefazione, nemmeno firmata, affinché a parlare di quei tre anni e mezzo di inferno fossero loro, i sarajevesi che decisero di non andarsene per non darla vinta agli assedianti. Quel loro rimanere fu un grande atto di civiltà, ma alla fine - è triste doverlo riconoscere - hanno vinto i moderni barbari perché la città ne è uscita profondamente ferita, i signori della guerra sono diventati influenti uomini d'affari, le persone anziane a vivere di dignità come sanno fare ma che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. I libri lasciano traccia. Ma la domanda di fondo è questa: quanto rimane nella memoria collettiva dell'Europa di questa tragedia europea? Lo chiedo al folto uditorio che incontro nella sala delle Acli all'incontro organizzato da Ipsia su "F35, il lavoro e la difesa", perché sono stanco dei rituali di un pacifismo che non sa (o non vuole) sporcarsi le mani. Sono quattro anni che parliamo di questa sciagurata intenzione da parte dei governi italiani, quello di Berlusconi prima e quello di Monti oggi, di dotarsi di una consistente flotta di cacciabombardieri d'attacco, 131 prima e 90 ora. Ma il cambio politico è questo? Quarantuno caccia F35 in meno? L'unico Consiglio Regionale che ha detto no a questa operazione è stato il nostro e in Parlamento il tentativo da parte di Pezzotta e altri deputati e senatori è sostanzialmente caduto nel vuoto. In tempo di tagli generalizzati, l'unica cosa che non si taglia (oltre ai vitalizi dei parlamentari) sono le spese militari. "Bilanciare la spesa in senso virtuoso" dice il ministro - ammiraglio Di Paola che, a spesa invariata, significa meno stipendi e più armi. Dobbiamo riflettere su questo governo che non cambia di passo, su questa nostra impotenza e su queste amnesie.

Occorre una nuova visione, questo è il problema. In primo luogo, l'idea di un nuovo modello di difesa di natura europea, considerato che i paesi UE spendono per i loro apparati militari almeno 270 miliardi di euro ogni anno, per difendere confini nazionali sempre più anacronistici. La politica deve cambiare il proprio sguardo... e non farsi condizionare dalla grande lobby militar industriale rappresentata da Finmeccanica, il colosso dell'industria militare e aerospaziale italiana, una delle dieci potenze mondiali del settore.

Occorre in secondo luogo, ed è un tema che viene posto in particolare dal segretario della Fiom Cgil del Trentino Roberto Grasselli, non solo invocare ma farsi protagonisti di un diverso modello di sviluppo che non contempli fra gli indicatori dello sviluppo il settore militar industriale, indirizzando le risorse pubbliche verso il lavoro produttivo e l'economia vera, puntando su filiere territoriali improntate alla valorizzazione delle risorse e delle caratteristiche del territorio.

Occorre infine che la cultura della pace irrompa nella sfera politica e questo, del resto, era esattamente l'obiettivo della legge istitutiva del Forum trentino per la pace e i Diritti Umani. Sono passati vent'anni e anche in questo caso, nonostante la diversità trentina, il bicchiere è mezzo vuoto più che mezzo pieno. Questo non significa che non si siano fatte cose per certi versi straordinarie, forse altrove inimmaginabili. Ma nel contesto di crisi della politica dobbiamo dirci con molta franchezza che siamo molto lontani dal considerare la cultura della pace come senso comune.

Finisco alle Acli che sono quasi le 8 di sera e di lì a mezz'ora devo essere a Mori per un incontro sul tema dell'amianto. Una trentina di persone attente fino all'ultimo, molte domande e anche congratulazioni, per la legge e per aver trattato un tema tanto inquietante con la leggerezza del racconto.

 

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