"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

23/04/2012 -
Il diario di Michele Nardelli
Parigi, inizio Novecento
Una nuova settimana che si preannuncia densa di avvenimenti. Iniziamo con l'esito del primo turno nelle elezioni presidenziali in Francia. C'è euforia a sinistra per il successo di Hollande che supera di qualche punto Sarkozy: non accadeva da tempo che il presidente uscente prendesse meno voti di uno sfidante e questo è un segnale positivo. Ma come non vedere il successo dell'estrema destra xenofoba di Marine Le Pen che arriva al 18% dei suffragi? Un quinto dell'elettorato francese che già sta pesando nello svolgersi del ballottaggio, tanto è vero che Sarkozy si è rigettato nella mischia facendo propri i toni della destra. Non oso pensare se dovesse spuntarla... sarebbe un nuovo colpo per l'Europa. Perché è proprio l'Europa il cuore politico della partita che si gioca in questi giorni in Francia e nei prossimi mesi in tutti gli altri paesi.

Le Pen non è solo un fenomeno d'oltralpe. Se vi capita di ascoltare un comizio elettorale della "Lady nera di Francia" potrete capire come la Lega in Italia altro non sia che un fenomeno della modernità, espressione di un tempo dove l'alternativa fra civiltà e barbarie è sempre più netta. Gli argomenti e persino le parole sono le stesse e attraversano - in forme diverse - tutto il vecchio continente.

Il problema è che l'azione di contrasto fatica ad esprimere una narrazione nuova, perché le idee della sinistra (o del centrosinistra) sono ferme ad un Novecento niente affatto archiviato. Tutti ad invocare il rilancio della crescita e un modello sociale, quello keynesiano, fuori dal tempo, che aveva come presupposto il fatto che una parte dell'umanità non sedesse al tavolo dei commensali.

Voglio dire che per battere la destra che avanza, serve una nuova visione che faccia propria la cultura del limite. Capace di proporre un patto globale in nome della sostenibilità con le generazioni a venire. Che dalle grandi questioni del surriscaldamento del pianeta arrivi a riconsiderare la qualità del lavoro, dei consumi, dell'abitare, del vivere. E per far questo servono radici e visioni, una politica che corrisponda alla cifra dei problemi, che è sempre più territoriale e sovranazionale.

E capace di mettersi alle spalle i vuoti rituali. La Costituzione Italiana è questo programma politico? Per quanto si possa essere affezionati alla nostra Carta Costituzionale, la mia risposta è no. Il 22 dicembre 1947 non è solo il secolo scorso e, per quanto lungimiranti potessero essere i padri della Costituzione, il quadro con cui abbiamo a che fare è totalmente cambiato. Attardarsi intorno alle celebrazioni del centocinquantenario dell'unità d'Italia è stata una scelta sbagliata, sul piano culturale prima ancora che politico. L'affermazione dell'unità nazionale di fronte alle tendenze localistiche, una scelta miope e subalterna proprio nei confronti del leghismo e del vento di destra che tira in Europa. Non credo proprio che le celebrazioni del 25 aprile saranno l'occasione per confrontarsi su questo.

Già immagino la faccia sbigottita di qualche lettore, ma se non affido a questo diario questo mio sentire sarei votato al silenzio. Voglio dire, in altre parole, che la prospettiva politica è l'Europa. Non l'Europa che abbiamo ora, ovvero l'Europa degli Stati che non vogliono cedere nulla della propria sovranità né verso l'alto, tantomeno verso il basso (i territori), ma l'Europa delle regioni, come del resto l'avevano pensata i padri fondatori del federalismo europeo, non a caso condannati all'emarginazione politica. E se pensiamo all'Europa come insieme di minoranze (nazionali e culturali), la politica dovrebbe ripensarsi proprio su scala regionale ed europea, materializzando quel pensare/agire globale/locale di cui ci parlava profeticamente trent'anni fa Edgar Morin.

Qualche parola, infine, sul referendum per l'abrogazione delle Comunità di Valle. Domenica prossima io non andrò a votare. La prospettiva dell'autonomia integrale sulla quale è incamminata la nostra comunità porterà ad una ulteriore assunzione di responsabilità in capo alle istituzioni e al governo provinciale. Già con le ampie competenze che abbiamo, ci rendiamo conto di come la Provincia Autonoma sia diventata un  apparato troppo grande per essere snello e sostenibile. Trasferire sul territorio funzioni oggi in capo alla Provincia è decisivo, ma queste non possono trovare asilo nelle amministrazioni comunali. Per questo le Comunità di Valle rappresentano una sfida di grande rilievo per ridisegnare il nostro assetto autonomistico. Una riforma appena avviata, che incontra resistenze, tanto nell'apparato provinciale che - resistendo alla politica - non vuole mollare poteri e competenze, quanto nei Comuni, preoccupati di cedere qualche propria prerogativa verso le Comunità. Ma questo si chiama conservazione.

Fermare questa sfida a pochi mesi dall'entrata a regime della riforma istituzionale è un imbroglio, che cerca di utilizzare l'indignazione verso i costi della politica per fermare un cambiamento ancora fragile. Permettete che a questo imbroglio ci si possa sottrarre, non partecipando al voto di domenica prossima.

 

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