"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

25/04/2012 -
Il diario di Michele Nardelli
La caduta del fascismo
In piazza a Trento per il 25 aprile ci sono qualche centinaio di persone. Altre affollano le manifestazioni che si svolgono a Rovereto ed in altri Comuni trentini, come del resto in tante città di questo paese nato dalla Resistenza al nazifascismo.

Verso i pochi ancora in vita che furono protagonisti  della Liberazione e verso tutte le persone che sacrificarono la loro vita nella Resistenza, tutti dovremmo dire semplicemente "grazie". E' per questa ragione che sono qui, in piazza, anche se il rito che si trascina negli anni sempre uguale non mi piace. A commuovermi ascoltando le ultime parole scritte ai loro cari dai condannati a morte e lette con grazia da un giovane ventenne, anche se temo il veleno delle cerimonie.

Cadere nella retorica è facile. Interrogarsi sul significato della Liberazione oggi è il motivo di tutti i discorsi ufficiali, ma non ci mette al riparo. Nemmeno se, come è accaduto nelle ultime edizioni della ricorrenza del 25 aprile, sono state all'insegna della necessità di una nuova liberazione, tanto che lo slogan recitava più o meno così: "Non era questa l'Italia per cui la Resistenza aveva lottato". C'era Berlusconi, un nuovo fascismo con cui prendersela.

Resistere, resistere, resistere...  si diceva (e per inerzia ancora si dice). Più facile immaginarsi di nuovo in guerra (a parole, s'intende) che interrogarsi su quel che non ha funzionato, sulla shoah e i gulag che non abbiamo elaborato,  tanto per fare un esempio, o sulla colpa morale e politica che abbiamo fatto finta di non vedere, visto che non mi risulta che Mussolini avesse dietro di sé un piccolo consenso. O, ancora, sul razzismo mascherato di chi non è disposto a rinunciare a nulla, in un mondo già oggi oltre il limite.

Si può fare come hanno fatto i Radicali a Roma, indicare le condizioni di vita nelle carceri italiane come frontiera di civiltà e l'amnistia come nuovo terreno di liberazione. Ci può stare, sia chiaro, anche la provocazione contro l'antifascismo di maniera. Ma qui, come altrove, la scelta di abitare la contraddizione è forse più dolorosa ma almeno dispone al dialogo, piuttosto che all'anatema.

Anni di lavoro sui temi della memoria hanno messo in rilievo la scarsa dimestichezza che abbiamo verso la cultura del conflitto. Preferiamo occuparci delle emergenze, oppure delle materialità, in nome di un economicismo mai domo. I conflitti, invece, li rimuoviamo, nella speranza che il tempo guarisca le ferite.  Ma non è affatto così.

Abbiamo bisogno del colpevole, del criminale da far fuori prima che parli e dica cose sconvenienti per i vincitori. Ma dell'elaborazione dei conflitti, di quel lavoro di indagine, di scavo, di raccolta delle diverse narrazioni, che richiede di farsi attraversare dal conflitto assumendone il dolore, che significa mettersi nei panni altrui, che richiede di interrogarsi non solo sulla colpa criminale ma anche sulla banalità del male... non se ne parla. Né nelle celebrazioni, né fra una celebrazione e l'altra. Perché richiede di interrogarsi su di sé, non sulle responsabilità degli altri.

Ma, credetemi, è il solo modo che io conosca per venirne a capo, per evitare quello che James Hillman indica con l'espressione "La guerra non è mai finita". L'elaborazione del conflitto non ha come obiettivo di stabilire chi stava nella ragione e chi nel torto, ma quello di cercare per quanto è possibile una narrazione condivisa o, almeno, frammenti di narrazione per costruire un terreno comune per guardare al futuro e voltare pagina.  

Era questo il grande valore della Costituzione Italiana, una Carta di tutti, prima che diventasse suo malgrado un programma politico, a fronte di chi la voleva (e la vuole) calpestare. Dopo il ventennio berlusconiano varrebbe la pena di lavorare ad un nuovo patto di cittadinanza, che rifletta sulla tendenza - in assenza di elaborazione collettiva - della storia a ripetersi, e che tenga conto di come è cambiato il mondo intorno a noi sul piano dell'interdipendenza.

Quando i padri del manifesto di Ventotene lasciarono l'isola sulla quale il fascismo li aveva confinati, in quel mare pensavano che la fine della guerra avrebbe portato ad una nuova storia europea, perché era l'Europa e non gli stati nazionali il vero antidoto al fascismo e alla terza guerra mondiale. L'inno alla gioia la banda municipale lo dovrebbe conoscere...

Con questi pensieri cammino in mezzo alle divise militari e alle bandiere della nostalgia.

 

1 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da fvtrento il 26 aprile 2012 16:03
    Cito un post sul 25 Aprile scritto su facebook da un mio amico di Trento, Renzo Campion:
    Oggi la memoria mi riporta al 1945 avevo sei anni e mezzo. il mio paese disteso lungo la destra adige nell'alto polesine un bel mattino di aprile si era risvegliato mentre truppe di tedeschi in ritirata lo attraversavano diretti a nord dopo aver abbandonato il fronte sul Po. I ponti sull'Adige già distrutti dai bombardamenti creavano non pochi problemi ai soldati in ritirata. la popolazione impaurita spiava intimorita attraverso le fessure degli scuri tenuti chiusi. Alcuni giovanotti con molta curiosità ed altrettanta incoscienza erano saliti in cima al campanile convinti di vedere arrivare gli americani. I soldati che transitavano in modo disordinato vedendo i ragazzi sul campanile e scambiandoli per vedette partigiane si erano allarmati e temendo un'imboscata avevano cominciato un rastrellamento per il paese. Presero il parroco e gli uomini del paese rinchiudendoli nel cortile dell'osteria vicina alla chiesa. La disperazione tra gli abitanti era altissima e la paura di un eccidio era profonda. Alcune donne si rivolsero ad un milite fascista del paese pregandolo di intercedere con i tedeschi. La trattativa proseguì fin quasi a sera ed alla fine i soldati lasciarono il paese liberando tutti.
    Il fascista con questa azione si guadagnò la riconoscenza del paese avendone beneficio al processo intentatogli dopo la liberazione e per molti anni alla ricorrenza del 25 aprile il parroco celebrava una messa solenne alla quale partipava tutto il paese compreso il fascista riscattatosi con il salvataggio degli ostaggi.
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