"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Verso i pochi ancora in vita che furono protagonisti della Liberazione e verso tutte le persone che sacrificarono la loro vita nella Resistenza, tutti dovremmo dire semplicemente "grazie". E' per questa ragione che sono qui, in piazza, anche se il rito che si trascina negli anni sempre uguale non mi piace. A commuovermi ascoltando le ultime parole scritte ai loro cari dai condannati a morte e lette con grazia da un giovane ventenne, anche se temo il veleno delle cerimonie.
Cadere nella retorica è facile. Interrogarsi sul significato della Liberazione oggi è il motivo di tutti i discorsi ufficiali, ma non ci mette al riparo. Nemmeno se, come è accaduto nelle ultime edizioni della ricorrenza del 25 aprile, sono state all'insegna della necessità di una nuova liberazione, tanto che lo slogan recitava più o meno così: "Non era questa l'Italia per cui la Resistenza aveva lottato". C'era Berlusconi, un nuovo fascismo con cui prendersela.
Resistere, resistere, resistere... si diceva (e per inerzia ancora si dice). Più facile immaginarsi di nuovo in guerra (a parole, s'intende) che interrogarsi su quel che non ha funzionato, sulla shoah e i gulag che non abbiamo elaborato, tanto per fare un esempio, o sulla colpa morale e politica che abbiamo fatto finta di non vedere, visto che non mi risulta che Mussolini avesse dietro di sé un piccolo consenso. O, ancora, sul razzismo mascherato di chi non è disposto a rinunciare a nulla, in un mondo già oggi oltre il limite.
Si può fare come hanno fatto i Radicali a Roma, indicare le condizioni di vita nelle carceri italiane come frontiera di civiltà e l'amnistia come nuovo terreno di liberazione. Ci può stare, sia chiaro, anche la provocazione contro l'antifascismo di maniera. Ma qui, come altrove, la scelta di abitare la contraddizione è forse più dolorosa ma almeno dispone al dialogo, piuttosto che all'anatema.
Anni di lavoro sui temi della memoria hanno messo in rilievo la scarsa dimestichezza che abbiamo verso la cultura del conflitto. Preferiamo occuparci delle emergenze, oppure delle materialità, in nome di un economicismo mai domo. I conflitti, invece, li rimuoviamo, nella speranza che il tempo guarisca le ferite. Ma non è affatto così.
Abbiamo bisogno del colpevole, del criminale da far fuori prima che parli e dica cose sconvenienti per i vincitori. Ma dell'elaborazione dei conflitti, di quel lavoro di indagine, di scavo, di raccolta delle diverse narrazioni, che richiede di farsi attraversare dal conflitto assumendone il dolore, che significa mettersi nei panni altrui, che richiede di interrogarsi non solo sulla colpa criminale ma anche sulla banalità del male... non se ne parla. Né nelle celebrazioni, né fra una celebrazione e l'altra. Perché richiede di interrogarsi su di sé, non sulle responsabilità degli altri.
Ma, credetemi, è il solo modo che io conosca per venirne a capo, per evitare quello che James Hillman indica con l'espressione "La guerra non è mai finita". L'elaborazione del conflitto non ha come obiettivo di stabilire chi stava nella ragione e chi nel torto, ma quello di cercare per quanto è possibile una narrazione condivisa o, almeno, frammenti di narrazione per costruire un terreno comune per guardare al futuro e voltare pagina.
Era questo il grande valore della Costituzione Italiana, una Carta di tutti, prima che diventasse suo malgrado un programma politico, a fronte di chi la voleva (e la vuole) calpestare. Dopo il ventennio berlusconiano varrebbe la pena di lavorare ad un nuovo patto di cittadinanza, che rifletta sulla tendenza - in assenza di elaborazione collettiva - della storia a ripetersi, e che tenga conto di come è cambiato il mondo intorno a noi sul piano dell'interdipendenza.
Quando i padri del manifesto di Ventotene lasciarono l'isola sulla quale il fascismo li aveva confinati, in quel mare pensavano che la fine della guerra avrebbe portato ad una nuova storia europea, perché era l'Europa e non gli stati nazionali il vero antidoto al fascismo e alla terza guerra mondiale. L'inno alla gioia la banda municipale lo dovrebbe conoscere...
Con questi pensieri cammino in mezzo alle divise militari e alle bandiere della nostalgia.
1 commenti all'articolo - torna indietro