"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

01/07/2010 -
Il diario di Michele Nardelli
Prijedor 1992, campo di concentramento di Trnopolje
Rientro a Trento e sul traghetto che ci porta a Piombino mi metto a scrivere una nuova "Lettera agli amici", il terzo rapporto semestrale sulla mia attività di consigliere e dintorni (se non avete ricevuto quelle precedenti e intendete riceverla non avete che da segnalarlo indicando il vostro indirizzo mail nel commento). Intanto sono solo degli appunti, per una successiva stesura più completa. Un esercizio che in qualche modo cerca di ricostruire una sintesi ragionata di questo stesso diario quotidiano, per cercare di mettere a fuoco il significato di un lavoro politico ed istituzionale che, nel rincorrersi degli avvenimenti e nel clamore di una politica sempre più gridata, rischia di sfumare.

Quando l'autonomia del pc portatile comincia a scarseggiare (e per non perdere del tutto il piacere di stare al sole), mi prendo un tavolino sul ponte della nave e un libro, Un terribile amore per la guerra di James Hillman. Il vecchio saggista, psicanalista e filosofo statunitense, in quello che - come lui stesso scrive - «suppongo sarà il mio ultimo libro», ci propone un testo che tocca il mio sentire più profondo in ordine ad un tema - la normalità della guerra - sul quale nei mesi scorsi ho iniziato a lavorare. Ma nel marasma di cose che attraversano la mia vita e il mio impegno avrei bisogno di un tempo supplementare. Che spero prima o poi possa arrivare.

In ogni caso è un campo di indagine di questo mio stesso impegno. Non a caso, la citazione che ho posto in apertura del programma del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani è una frase dello scrittore colombiano Estanislao Zuleta che affronta esattamente questo tema, tanto complesso, quanto doloroso, la "felicità della guerra". Quel che i pacifismi sono soliti tacere, che rappresenta invece il nodo cruciale che accompagna l'umanità da quando se ne ha memoria. E che ci siamo riproposti di indagare, serenamente e severamente, perché - come scrive Zuleta - «solo un popolo scettico sulla festa della guerra, maturo per il conflitto, è un popolo maturo per la pace».

Che Hilmann affronti, infine, questo tema lo considero davvero un regalo. Almeno per me è così. Ogni volta che ho provato ad affrontare pubblicamente questo argomento, ho visto facce stupite, talvolta indispettite. Come a dire "Dov'è lo scontro fra il bene e il male?" O anche "Dove stanno le colpe?". Indagare sulla "felicità della guerra", sulla sua "normalità" per restare a Hilmann, vuol dire indagare su di noi, sul "criminale che è in ciascuno di noi", oppure sulla "banalità del male" o, ancora, sull'incapacità di elaborare i nostri conflitti. Limitandosi ad affrontare - come fanno i Tribunali penali internazionali - la dimensione della colpa criminale, dimenticandosi che così lasciamo inevitabilmente sullo sfondo - per usare l'espressione di Karl Jaspers - la colpa politica e quella morale. La colpa collettiva, cioè, quella che talvolta va sotto il nome di falsa coscienza oppure di indifferenza, ma anche di complicità o di aperto sostegno. O pensiamo che le dittature che abbiamo conosciuto nel Novecento siano state il prodotto del fato e non invece dell'ampio consenso che godevano fra la gente comune?

Divoro le pagine del libro, ma siamo già a Piombino. Il mostro metallico che ci accoglie mi riporta, per così dire, a casa. Sono i simboli di un'idea dello sviluppo nel quale nemmeno si poneva il senso del limite, essendo tutto possibile e nelle nostre disponibilità. Eppure quei simboli sono stati l'emblema del lavoro, della forza dell'uomo che dominava la natura, di un'emancipazione che veniva intesa come liberazione e che si è disvelata nel suo esatto contrario, ovvero la subordinazione dell'uomo alla cosa. Ne dovremo parlare nei prossimi giorni quando affronteremo il tema delle acciaierie di Borgo Valsugana e del futuro sviluppo di quella valle. E non sarà facile, perché anche in questo caso la realtà non è affatto in bianco e nero.

Quando dopo qualche ora arrivo a Trento, faccio un salto a casa e poi corro in ospedale, dov'è ricoverata Maria Pia Ciresa. Una cara e vecchia amica, compagna di tante battaglie, che nei primi anni novanta non aveva esitato a mettersi insieme a tanti altri compagni di viaggio su un pullman fino ad arrivare nel cuore della Sarajevo assediata dalla guerra. Maria Pia, che pure in questi ultimi anni ha saputo dar prova di che fibra speciale era fatta, ora si sta spegnendo. Ma quando entro nella sua stanzetta, il suo sorriso mi accoglie, come sempre è accaduto in questi anni nei quali pure si è silenziosamente accomiatata dal mondo degli umani. Ed è per me il migliore dei regali. Ora che ci penso, il secondo di questa afosa giornata di luglio.
 

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