"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

24/11/2010 -
Il diario di Michele Nardelli
la musica sul ghiacciaio
Il Consiglio Regionale è un luogo sempre più vuoto ed inutile. I Consigli della Provincia autonoma di Bolzano e di quella di Trento potrebbero aver molte cose da dirsi, ma non nell'ambito di un'istituzione il cui ruolo e significato andrebbe profondamente rivisto e che si porta appresso il peso di una vicenda storica che lo ha utilizzato - fino al 1972, ma anche successivamente - come strumento per condizionare l'autogoverno del Sud Tirolo. Solo togliendo di mezzo l'equivoco della contesa sulle competenze è immaginabile che trentini e sudtirolesi ritrovino il senso di un dialogo, di una storia per molti tratti comune, di un sentire di genti alpine che avrebbero molte cose su cui confrontarsi.

Per giungere a questo è necessaria una nuova fase nell'autonomia regionale, il terzo statuto di cui si parla ormai da anni e che dovrebbe scandire una nuova prospettiva europea. Nel frattempo la ritualità del Consiglio regionale non aiuta affatto. Progressivamente svuotato di competenze finite in capo alle due province autonome, rimangono piccole cose residuali, che possono avere un loro peso specifico come ad esempio la previdenza integrativa o il Pensplan ma che non giustificano un apparato seppur fortemente ridotto comunque costoso e soprattutto dai forti connotati politici. Il fatto è che nel castello dell'autonomia regionale, togliere questo tassello non è possibile se non attraverso una riforma costituzionale che a sua volta presuppone un largo consenso. Reso difficile da una minoranza italiana in Sud Tirolo che non ne vuol sapere e da un centrodestra trentino che non ha mai condiviso lo svuotamento della Regione.

Insomma, la distanza fra Trento e Bolzano è oggi ben più consistente dei sessanta chilometri che separano le due città. Partiamo proprio da qui nel presentare al Barycentro di Piazza Venezia, a Trento, il libro "Contro i miti etnici". Con me uno degli autori, Stefano Fait. Ho curato la prefazione (che riporto in altra parte di questo blog) di questo lavoro che indaga sul nazionalismo sudtirolesi, ma l'oggetto della discussione spazia ben oltre l'ideologia del Bauer, affrontando l'uso maldestro che oggi viene fatto della storia come pretesto per identificarsi in sottrazione. Tanto che alla fine delle ideologie è corrisposta l'esaltazione di miti pagani fatti di spoglie disseppellite, di battaglie rievocate e di ampolle agitate come clave.

Un giovane ragazzo di origine pugliese, in Trentino da qualche tempo, dice che per la prima volta, questa sera, si è sentito dentro uno spazio non angusto di riflessione. Mi colpisce il suo sguardo curioso ma anche il suo disagio, che pure non ha nulla a che vedere con l'atteggiamento un po' spocchioso di chi arriva in Trentino carico di pregiudizi. Vuol dire che quel tratto "glocale" che talvolta diamo per scontato non sempre viene percepito come tale. E questo deve farci riflettere sull'importanza delle connessioni europee, danubiane, mediterranee, aperte sul mondo, alle quali pure stiamo lavorando e che faticano ad entrare in dialogo con ragazzi come questo.

Mentre discutiamo di questo, dall'altra parte del centro storico, un gruppo di giovani se la prende con l'apertura dell'anno accademico. Ce l'hanno con la Gelmini e la mancanza di futuro, le ragioni non mancano. Se la prendono anche con la Provincia, evidentemente distinguere nella semplificazione dei messaggi non è sempre facile.

L'indomani il direttore del "Trentino" Alberto Faustini scriverà così: «Viva la rivoluzione. A patto che non sia una sorta di suicidio. L'allora presidente della Provincia autonoma di Trento, Bruno Kessler, negli anni caldi, chiese ai militari - come ricordava il consigliere provinciale Giorgio Lunelli giorni fa nel corso di un convegno - di intervenire per "proteggere" l'Università: infatti i loro fucili non erano rivolti verso i "rivoluzionari", ma verso la città, quasi a proteggere - anche simbolicamente - l'Ateneo trentino. Pensavo a quest'immagine, mentre, anziché difendere con forza l'Università, gli studenti trentini - che vivono una condizione molto diversa da quella dei loro colleghi che protestano nel resto del Paese - occupavano la facoltà di Giurisprudenza, tentando di impedire l'inaugurazione dell'anno accademico. Se i ragazzi avessero studiato, avrebbero scoperto che la riforma Gelmini, di fatto, in Trentino ha ben poco spazio. E l'accordo di Milano che contestano è esattamente lo strumento che dovrebbe permettere di arginare la Gelmini e, soprattutto, di non subire i tagli previsti da Tremonti. Su quell'intesa è giusto vigilare, anche perché un rischio - seppur remoto - che il passaggio della delega dal governo centrale al governo trentino in materia di Università porti con sé un po' di provincialismo c'è. Ma quell'accordo salva, a suon di euro provinciali, l'Università dalla scure del governo. Gli studenti hanno dunque sbagliato indirizzo e mira, indebolendo una protesta che pure ha le sue ragioni: salvare l'Università così è come difendere gli indiani sparando loro contro».

Provo a dire le stesse cose al ragazzo pugliese che ci ascolta. Ma sbaglieremmo nel chiuderci a riccio a difesa della nostra diversità, che c'è ma non dobbiamo mai dimenticarci di farla conoscere e di nutrirla, con le idee piuttosto che con i denari.

 

 

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