"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

30/07/2010 -
Il diario di Michele Nardelli
Hotel Kozara
"Mirijana" ti lascia senza parole. Provo a scriverne ma la penna stenta a trovarle, le parole. Per quante volte possa aver posto - nell'elaborazione del conflitto - la necessità di calarsi nei panni dell'altro, alla fine questo "altro" lo costruiamo a nostra immagine e somiglianza. Così il perdono, troppe volte banalizzato nel perdonabile, che portava Vladimir Jankelevitch ad affermare che "il perdono, se ce n'è, comincia quando inizia l'imperdonabile". Nell'altro non è sempre facile calarsi, nemmeno desideri di farlo quando l'altro è quello che ti stupra davanti ai tuoi figli, che ti ferisce nell'animo o nella carne fino a farti desiderare di morire, che ammazza le persone a te care facendosene scherno.

Ho per la testa questi pensieri, oltre a qualcosa di fisico nello stomaco, quando finisce "Mirijana". Penso a quanta fatica e dolore vero abbia provato Michela Embrìaco nel prendere i panni di questa donna, non l'eroina nel rogo, ma una delle tante donne che la guerra se la porta dentro per sempre. Penso alle persone che ho conosciuto e che mi hanno detto di essere passate dai campi di concentramento e alle ferite insanabili che sentono sulla loro pelle. Penso ai luoghi dove venivano seviziate, a quell'hotel sul monte Kozara dove le "tigri" portavano le loro giovani vittime poi destinate a sparire in qualche fossa comune.

Non siamo in un teatro e il palcoscenico è una stanza di una casa di Madrano, analoga alle stanze disadorne che mi hanno tante volte ospitato nel mio dopoguerra bosniaco. Quel colore rosso un po' stinto dal tempo, quei muri privi di intonaco, quelle scritte come segno animalesco del territorio, hanno l'effetto voluto di farti entrare in quella storia. Una storia non raccontabile da chi l'ha subita, ma fin troppo conosciuta e perfino esibita da chi l'ha voluta, tanto da avere il coraggio di filmarla o di rivendicarla nel cameratismo maschile. O da chi, per caso, s'è trovato nel branco e non ha avuto il coraggio di tirarsene fuori, fino a ritrovarsi in quel cerchio magico nel quale alla fine impari a stare, dove cadono le inibizioni e vien fuori il peggio che hai dentro di te, in un delirio di onnipotenza che ti riempie di adrenalina e ti dà potere di vita o di morte. Dove pure puoi autoassolverti, perché hai fatto il tuo dovere, hai difeso la tua civiltà, magari vendicato l'amico morto sgozzato.

Dall'altra parte il dolore, la sensazione di vuoto, l'odore che non sai toglierti di dosso, il paradosso di sentirti colpevole per quel figlio che odi ma che è anche tuo, del quale ti vorresti liberare ma non ne sei capace. Fra quelle mura, il teatro e la realtà si confondono.

Mi viene in mente Silvia. Quando in un lavoro di simulazione del conflitto, avendo avuto a che fare più di altri con i criminali e la loro narrazione, mi toccò di prendere i panni di uno di loro, dire le sue parole. La cosa mi riuscì così vera da fargli venire il voltastomaco.

Quei personaggi non rappresentano mostri. Sono persone normali, invece. Ed è per questo che quel senso di oppressione che si avverte finito lo spettacolo fa bene. Perché educare alla pace è saper fare i conti con la felicità della guerra. Che non è altro da noi.

Mettersi in gioco su questo terreno non è facile. Per questo il lavoro di Marzia Todero, Mirko Artuso, Michela Embrìaco, Dennis Montanari, Enrico Merlin e Pierluigi Faggion è particolarmente prezioso.

 

 

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