"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

15/10/2011 -
Il diario di Michele Nardelli
Sahara Occidentale

Sabato a Casablanca. Uno s'immagina una visita a quel che rimane della città vecchia, gli odori forti del mercato, uno sguardo sul mare che qui è oceano ... ed invece passiamo la giornata ad incontrare persone in hotel, prima dove abbiamo alloggiato e poi allo Sheraton, dove si svolge la conferenza sul futuro del Sahara Occidentale (che qui chiamano "marocchino"), dopo anni di stallo nelle trattative per l'indipendenza. Insomma, chiusi nei "non luoghi" della modernità che in questa metropoli appare più vistosa che altrove. Questo suona contraddittorio con i costumi tradizionali che affollano la conferenza e con le mie stesse parole sull'autonomia come modo di abitare la globalizzazione.

A tarda sera ne parlerò con i ragazzi marocchini e saharawi venuti dal Trentino per l'occasione e ci troveremo in piena sintonia. Mezzi e fini dovrebbero avere qualcosa da dirsi, ogni tanto, ma soprattutto quando parliamo di autonomia. Non vorrei che pensassero che l'autonomia sia un escamotage (o, peggio ancora, una furbizia) per venire a capo di un conflitto che ha prodotto quarant'anni di sofferenza. E lo dirò nel mio intervento alla conferenza del pomeriggio.

Nella giornata in cui gli indignados manifestano in 951 città di ogni parte del mondo contro gli effetti della finanza globale e per rivendicare il diritto al futuro, sono in Marocco e quello a cui assisto è molto probabilmente uno degli effetti della primavera araba. E' infatti dal 1975 che il desiderio di indipendenza del Sahara occidentale s'infrange contro l'indisponibilità del Marocco a mettere in discussione la sovranità di quelli che ritiene essere i propri confini, ma oggi accade forse qualcosa che potrebbe aprire una prospettiva diversa proprio in nome dell'autogoverno: il re del Marocco ha proposto l'autonomia, una larga autonomia per il Sahara, appunto un nuovo scenario possibile.

C'è attesa per l'incontro del pomeriggio, la conferenza che ruoterà intorno al tema dell'autonomia. Nell'albergo che ci ospita è un continuo via vai di persone e di strette di mani. Non so se hanno idea di quel che vuol dire autonomia, ma sicuramente qualcuno di loro vorrebbe mettersi alle spalle una storia di vita trascorsa nei campi profughi e nella violenza.  Altri più smaliziati vogliono probabilmente giocare questa carta per contrastare il diffondersi anche qui dei partiti islamici o per il prossimo destino personale. Ma non ha importanza.

Quel che mi interessa è che si parli di autonomia in maniera propria ed in una prospettiva non di chiusura egoistica ma nell'orizzonte del Mediterraneo come spazio sovranazionale, di idee e di progettualità politica. Il fatto di essere qui con Ali Rashid, amico e fratello, mi permettere di cogliere immagini e sfumature altrimenti impossibili da percepire. E rende la mia presenza ancora più importante, perché tutti qui hanno nel cuore la questione palestinese. Vedo gli occhi delle persone illuminarsi quando Ali nel presentarsi dice di essere di Al Quds, Gerusalemme.

Nella sala della conferenza ci saranno duecento persone, spiccano i colori vivaci dei costumi tradizionali delle donne come degli uomini. Un sacco di giornalisti assediano i relatori, la cosa è sentita e c'è la percezione di una svolta in corso sulla questione saharawi. L'immagine del re Mohammed VI è sullo sfondo del salone e penso fra me e me che non avrei mai immaginato che nel mio percorso politico ci sarebbe stato anche questo. A ragion del vero, nella Rapublika Srpska dell'immediato dopoguerra bosniaco, mi è capitato ben altro... ma quando si teorizza di abitare i conflitti questo è niente.

E' interessante il fatto che dopo la mia relazione, quella che ha il maggiore spazio nella conferenza, si avvicino spontaneamente numerosi giornalisti a chiedere di intervistarmi ... Non quelle di prassi, dovute all'ospitalità o al volere degli organizzatori, ma di operatori dell'informazione che rappresentano anche altri punti di vista e che hanno colto nelle mie parole un orizzonte che appare loro inedito e interessante.

Ed è questa, in buona sostanza, la ragione della mia presenza qui. L'autonomia non è qualcosa che si insegna, non ci sono modelli esportabili, ma idee ed esperienze da mettere in gioco. E poi quel cambio di paradigma che i profondi cambiamenti del nostro tempo impongono. Uno sguardo che propongo ha in più una prerogativa, non è né di destra, né di sinistra. O almeno non è così facilmente catalogabile. Parlare di amore per il territorio, di autogoverno, di responsabilità e di sostenibilità non è riconducibile alle vulgate novecentesche.

Uno dei giovani che assistono alla conferenza e che abbiamo conosciuto al nostro arrivo mi avvicina per dirmi che il mio è stato l'unico intervento che ha sentito vicino, che lo ha colpito nella sua sensibilità di migrante che vorrebbe un futuro diverso del paese del quale è pure orgoglioso. Ma dove c'è tanta povertà, mi dice, alla faccia della dimensione dei palazzi o delle moschee di questa città.

Mi avvicina un signore sui quarant'anni che si presenta come titolare di un'agenzia d'investimenti. Ha lavorato a Milano e mi dice che qui ci sono tante opportunità nel settore delle costruzioni, mentre in Italia è tutto costruito. Gli chiedo se dunque, visto come abbiamo ridotto il nostro bel paese, dovremmo fare altrettanto con il Marocco e gli faccio notare come, peraltro, già si stiano dando da fare abbondantemente in questa scellerata direzione.

Probabilmente ci sono persone che non hanno più l'abitudine di ascoltare quel che si dice, quasi fosse un optional anche in un momento di parola qual è una conferenza. E so  bene che anche da noi è talvolta così. Ma in generale devo dire che il racconto sulla vicenda dell'autonomia trentina viene colto da molti come uno sguardo interessante per le implicazioni che potrebbe avere anche in questo paese come approccio diverso allo sviluppo locale. Nelle domande del cronista del quotidiano dell'Unione socialista sento come questo approccio venga visto nella sua originalità, specie in un mondo come quello arabo che ancora fatica ad uscire dall'alternativa fra tradizione e modernità, a scrollarsi di dosso la nostalgia per un grande passato andato perduto e l'omologazione verso i tratti di una modernità omologante.

Alla fine della conferenza ci viene dato in dono uno "quftan", il costume tradizionale delle popolazioni saharawi e della Mauritania, che ci fanno  indossare per le immagini conclusive della conferenza. Come si suol dire "nei panni dell'altro". Così agghindati andiamo al buffet.  Anche qui sono in molti ad avvicinarci per chiedere di avere qualche ulteriore suggestione oppure per invitarci a ritornare e visitare la loro città o regione. Oppure a dirci che le nostre parole hanno dato un senso alla conferenza. 

Quando tutti se ne sono andati dal terrazzo dello Sheraton, io ed Ali siamo ancora lì a rispondere alle domande di chi mostra curiosità per questa visione territoriale della quale intuiscono il valore e la potenzialità di scompaginare le famiglie politiche di appartenenza.

Nel ritornare verso il nostro albergo, possiamo vedere uno spaccato della vita serale di Casablanca, c'è un gran movimento di uomini e di mezzi  ma l'impressione è quella di trovarsi in un luogo come tanti altri, gli stessi locali, gli stessi prodotti, gli stessi loghi, lo stesso degrado culturale in nome del consumismo.  La notte precedente ho dormito pochissimo e quando arriviamo sto crollando di stanchezza. Affido ad Ali le incombenze formali, una doccia e a nanna.

Un'occhiata alla televisione e apprendo che a Roma la manifestazione degli "indignados" è finita fra vetrine infrante e violenti scontri con la Polizia di cui sono responsabili i soliti cretini. Provo solo tristezza nel vedere come la protesta verso la mancanza di futuro e la partecipazione di migliaia di giovani venga violentata da chi esprime solo una cultura di morte. Quelle immagini di violenza prenderanno le prime pagine, le ragioni dell'indignazione continueranno a tenere banco solo nella preoccupazione sull'andamento delle borse e nient'altro. Forse ci si dovrebbe interrogare sulle modalità con le quali la si dovrebbe esprimere questa indignazione. Perché nel volto tumefatto di qualche poliziotto non ci vedo nulla di nuovo, né di ascrivibile ad una cultura di pace e di civiltà.

 

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